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Ancora sull’art. 18

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Della riforma del mercato del lavoro abbiamo già scritto sulle pagine di questa rivista. Torniamo oggi volentieri in argomento visto che il Governo sembra intenzionato, nel giro delle prossime tre/quattro settimane a licenziare una riforma di questo mercato. L’argomento è quindi di strettissima attualità e coinvolge praticamente tutti noi. Il lavoro è infatti l’attività tipica dell’uomo, gli animali non lavorano, cioè non creano con la propria attività beni materiali o immateriali, ma rispondono con le proprie azioni agli istinti. Ma restiamo all’articolo 18.

Ieri, nelle prime pagine, il principale quotidiano economico italiano ha dedicato all’argomento ampio e ben approfondito spazio. Dalla lettura emerge per prima cosa una fatto: la materia del licenziamento del lavoratore dipendente è trattata in maniera differente nei diversi Stati europei. Tutte le legislazioni prevedono una qualche causa per il licenziamento soggettivo abbinato al licenziamento per ragioni economiche legate alla vita aziendale. Il secondo caso non crea “problemi” perché purtroppo quando un’azienda va veramente male, non ci sono motivazioni che tengano, l’azienda chiude e il problema del lavoratore non esiste e basta. Il vero problema italiano, che emerge leggendo gli articoli pubblicati da Il Sole 24 Ore, è quando un’azienda italiana licenzia un dipendente e si instaura un contenzioso giuridico.

Qui iniziano le anomalie italiane, che sono di due tipi: tempi incerti e comunque lunghi prima di arrivare alla risoluzione della causa e incertezza nel costo monetario che dovrà sostenere l’azienda nel caso il licenziamento venga accolto. In sostanza quasi tutte le legislazioni degli altri Paesi prevedono un tetto massimo al rimborso, mentre in Italia il quantum viene deciso dal giudice. Se poi si aggiunge il fatto che i diversi tribunali seguono sull’argomento in esame diversa giurisprudenza, il quadro che emerge in effetti è quanto meno nebuloso e potrebbe scoraggiare gli investimenti delle grandi aziende in Italia. Dico potrebbe perché se si analizzano le motivazioni dichiarate che spingono i Top Manager delle grandi multinazionali a decidere in quali Paesi del mondo investire, la facilità di licenziamento non viene quasi mai citata tra le motivazioni decisive. Ma di questo argomento ci occuperemo in un altro articolo.

A questo punto mi rimane una domanda da porre e una considerazione da fare. La domanda è la seguente: come mai questo Governo ha deciso di porre come centrale per la riforma del mercato del lavoro la modifica / abrogazione dell’articolo 18 ? Abbiamo visto che le cause dell’anomalia italiana risiedono nei tempi lunghi della giustizia e nell’incertezza del risarcimento monetario, ma queste cause non dipendono direttamente dall’esistenza dell’articolo 18, ma dall’organizzazione della Giustizia in Italia e da una legislazione in parte lacunosa riguardo alla disciplina dei risarcimenti. Perché non si parte da lì?

La considerazione può sembrare banale tanto è semplice: solo la crescita economica può far aumentare i posti di lavoro e creare nel mercato le opportunità e la mobilità per tutti i lavoratori, mobilità positiva tanto cercata a parole e osannata da questo Governo. In caso contrario, cioè di contrazione dell’economia, le aziende saranno costrette a chiudere e quindi a licenziare, con giusta o ingiusta causa, poco importa.
Per il momento mi fermo: tante sarebbero ancora le cose da dire sull’argomento. Al prossimo articolo.

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